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Desideri in filigrana

Circa 7 anni fa ho scritto una lettera a me stessa. Alla me stessa che sarei stata nel futuro. Era parte di un esercizio di psicologia di una mia amica russa, incrociata durante un’esperienza di volontariato all’estero.

In realtà le lettere erano tre: una alla me stessa di lì a un anno; una alla me stessa di lì a 5 anni e una alla me stessa di lì a 10 anni.

Le conservo ancora in una scatola, con molta gelosia. La scatola è in uno scaffale alto e le lettere sono dentro una busta in mezzo a carte e fogli: non voglio che altri le trovino facilmente. Nessuno a parte me.

Non le cerco spesso, ma ogni tanto le penso e vado a ripescarle. Ogni volta che le rileggo è una sorpresa. In tutte e tre le lettere non avevo scritto grandi messaggi dal futuro, ma solo descritto una mia giornata, cosa stavo facendo e cosa mi frullava in testa, chi stavo aspettando e cosa avevo voglia di mangiare per cena.

Ricordo che la mia amica russa alla fine dell’esercizio aveva detto che quelle lettere non dovevano essere rilette come delle profezie inconsce, ma il segreto era rintracciare in tutte e tre il filo rosso che le legava: fatti, sentimenti, situazioni, aspirazioni che in qualche modo ritornavano.

Era come guardarle in trasparenza e scoprire che in filigrana c’era la stessa parola.

Ecco, tra le altre cose, in tutte e tre le lettere io ero alle prese con la scrittura di un libro. Nella fattispecie un libro per bambini.

Ora, non credo che in quegli scritti di 7 anni fa ci siano profezie inconsce, però la mia amica russa diceva che ciò che ritornava nelle lettere erano i nostri desideri più veri. E andavano seguiti come piccoli fari lontani, ma autentici.

Ecco, io di solito tendo a rispettare le consegne degli esercizi. E ne sono felice!

 

Tipitinga

Non è facile arrivare Tipitinga, serve un po’ di fortuna con i trasporti e la fiducia incrollabile che in qualche modo ce la farai.
Il signor Paulo e Marcía ci vengono a prendere con le moto all’imbocco dello stradone dove ci ha lasciato un passaggio di fortuna.
Io salgo dietro al signor Paulo, un indio di pochissime parole; mio fratello si accomoda sullo scooter di Marcía. È mezz’ora di una strada rossa tutta buche che sembra perdersi nella prateria. Sobbalzo aggrappata ai sostegni della Honda, il signor Paulo dice forse due o tre parole, che non capisco, durante tutto il tragitto. Io mi godo il vento in faccia.
Attraversiamo qualche gruppo di case, gli abitanti delle comunità si salutano tra loro con un sonoro “Hu!”.
Arriviamo alle ultime tre case del villaggio: è qui che stanno Marcía e i suoi figli.
Case di legno, case di fango e paglia, nel cortile scorrazzano galline, gatti e bambini.
Ringraziamo il signor Paulo e consegniamo a Marcía un pesce da fare alla griglia per il pranzo.
Ci dice di raggiungere i ragazzi, sono al fiume.

Jago e il cugino Erik stanno pescando, la piccola Yara li osserva sulla riva sollevando un gatto sulle zampe. Appena vedono mio fratello gli corrono incontro e lo abbracciano, in cerca di coccole.
Mi sommergono di domande, pieni di curiosità per una faccia nuova.
A Tipitinga il fiume è tutto: è la vasca da bagno, è l’acquaio, è il parco giochi, è la dispensa.
Jago ci mostra un pesciolino che ha appena pescato e si dimena all’amo, ma gli diciamo che il pranzo c’è già per oggi, quindi lo prende e lo ributta nel fiume. Si toglie la canottiera e i pantaloncini e raggiunge il cugino in acqua.
Yara li chiama, dice loro di aspettarla, si tuffa vestita e riemerge dopo pochi secondi, lisciandosi i capelli. Si butta anche mio fratello e allora parte la gara di tuffi.
Io guardo dalla riva, con i sandali nel fango molle, mentre intorno a me è tutto un brulicare di vita nella foresta: insetti, farfalle blu, giochi di luce del sole tra le fronde degli alberi.
Arriva mamma Marcía a pulire il pesce per il pranzo e a lavare le pentole.
I ragazzi continuano a scherzare tra schizzi e schiamazzi.
Prima di pranzo tutti a lavarsi le mani, poi si mangia insieme: ci si toglie le ciabatte e si entra in casa. La casa di legno è fresca e un po’ scura, ha una sola stanza dal soffitto basso con stoviglie e utensili attaccati un po’ ovunque, un piccolo lavandino sotto la finestra.
In tavola c’è il nostro pesce grigliato, accompagnato da riso bollito e farofa.
Ma Yara protesta e vorrebbe solo biscotti e latte. Ha già molte carie in bocca e le cose dolci peggiorano la situazione, le ricorda la mamma. Allora lei mette il broncio, giusto due minuti, finché la mamma non la imbocca a forza.

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Forró

C’è festa in strada: nell’aria odore di pesce fritto, lime e legna bruciata.
Sono i giorni della festa di Sao João.
Ovunque bandierine colorate che scattano sotto i colpi della brezza dell’oceano.
Sotto un gazebo c’è un trio che sta preparando gli strumenti per suonare: chitarra e voce, percussioni e basso.
La gente passeggia, mangia seduta fuori dai locali, girovaga tra i banchetti dei dolci fatti in casa.
Comincia a diffondersi la musica che attira la gente all’imboccatura del mercatino artigianale.
Ci sono bambini che corrono, gruppetti di adolescenti, famiglie rilassate, coppie giovani.
E poi ci sono loro, che si sono materializzati con i primi accordi di chitarra.
Lei ha un vestito verde, stampato a grandi fiori bianchi, ibisco forse.
Lui ha una camicia patchwork, bermuda e sandali di cuio. I capelli candidi e gli occhiali.
Ballano sotto il ritmo incessante dei colpi di cajon.

Morena Tropicana
Eu quero teu sabor
Ai! Ai! Ioiô! Ioiô!

Hanno cominciato a ballare prima che ci fosse la piccola folla che si è creata, hanno continuato a ballare nella folla che lascia loro lo spazio che si meritano.
Ballano come se non ci fosse un domani e l’asfalto della strada scottasse sotto i piedi.
Lui fa girare lei, lei ancheggia mulinando le mani in aria, lui incrocia i passi battendo il ritmo con i piedi e percuotendosi le caviglie. Si prendono con un trasporto da ventenni, ma senza essere inopportuni.
Perchè in quel momento, mentre ballano, sono effettivamente dei ventenni. Dei ventenni di quarant’anni fa. Ma a nessuno importa. A loro men che meno.
Così belli che tutti li stanno a guardare, anche i giovani che tentano di ballarci a fianco.
Il loro amore fa battere le mani, è tutto in quello spazio tra i corpi che si fa via via più stretto per poi riaprirsi. Come un fiore di ibisco.

Applausi, inchino, saluti.

Cartaz Ilha Plaza

Giunchi nel vento

Conosco delle donne, forti e resistenti come giuchi nel vento.

Non si conoscono tra loro, almeno non tutte.

Una è molto religiosa, un’altra per nulla. Una conosce a memoria nomi di piante e fiori, l’altra è una ex prof di letteratura.

Ma non è quello che le rende diverse a interessarmi. Quello che le accumuna è molto più forte di ciò che le distingue, così che ai miei occhi risultano un’unica stessa donna che ha caratteristiche inconfondibili.

Hanno tutte tra i sessantacinque e i settant’anni; un’energia vitale immensa; mariti silenziosamente assenti, malati o defunti.

Fanno tanto e danno tanto senza chiedere praticamente nulla, fanno anche quando non è richiesto e per questo a volte combinano guai. Ti sorprendono con pretese improbabili come salvare dei girasoli da un luogo impervio o improvvisare delle lezioni di lingua straniera. Ti offrono viveri come se il mondo finisse domani o hanno sempre un regalo a portata di mano. Fatica sdebitarsi con loro.

Hanno una naturale propensione per le imprese difficili alle quali si dedicano con anima e corpo. Occuparsi delle persone in difficoltà, delle piante rare, delle vite in crisi.

Hanno più appuntamenti in agenda che una manager in carriera, l’auto stipata fino al tetto come fosse un mini van.

Della loro vita privata si sa poco, quel tanto che lasciano trapelare. Si sa che sono loro a portare avanti la famiglia o quel che ne resta. Che hanno forza anche per le loro stanche metà.

Una volta ho fatto da tramite per l’incontro tra due di queste donne: è stato un riconoscersi a prima vista, e io lo me l’aspettavo. Una portoghese, l’altra italiana, si sono capite in francese perché era l’unica lingua che capivano entrambe. Hanno condiviso momenti di una vacanza speciale di cui sono stata spettatrice a distanza.

Al loro ritorno una mi ha regalato una confezione di marmelo (la mia composta preferita), l’altra un piccolo azulejo.

Sono fatte così, ce la mettono tutta per non farsi dimenticare. D’altronde ci riuscerebbero anche senza regali!

canne

 

Scintilla

Dentro di te hai una scintilla. Non lo sai quando nasci, nessuno la vede subito. Ma lo scopri a poco a poco. È un bagliore che scorgi nelle cose che ti vengono meglio di altre, anche se non ne sei sempre sicuro. A volte la dai per scontata, altre volte la soppesi tra le mani senza sapere bene che fartene.
Non è mai cresciuta più di tanto, le hai dato solo lo stretto necessario per non morire.

Un giorno la scintilla d’un tratto scompare, così, da un momento all’altro. Puf. Andata.
La scintilla si è spenta, persa tra i troppi doveri prima dei piaceri, smarrita tra i favori, le riunioni, le scuse e le bugie, sommersa dagli impegni, dalle scadenze, dagli obblighi. L’hai soffocata con le tue mani, l’hai messa a debita distanza, sforzandoti di non vederla. Finché è uscita dal tuo campo visivo e ti è sembrato che tutto potesse continuare lo stesso. È più comodo, è tutto più veloce e semplice, anche se un po’ più buio.
Vorresti sentirti sollevato, eppure ci resti tremendamente male, senza sapere che fare.

Poi un giorno rompi uno specchio: solo allora ne senti finalmente la mancanza, tagliente. È come se fosse sparita la parte più vera di te e ti sentissi mutilato: senza una gamba, senza le orecchie, senza la lingua, senza un pezzo di cuore. E ti fa male proprio la parte che non c’è, come un arto fantasma. Metti il dito nel pezzo che manca e ti sciogli in lacrime. E sotto le lacrime trovi di nuovo lei, la scintilla. Era nascosta lì, disposta a dissetarsi di acqua salata, tanta era la sua sete. Allora la difendi dal vento con le mani a coppa e riaccendi il fuoco, conservando il segreto.

spark

 

Pensieri di tè

Fuori c’è la nebbia che copre tutto e mi dice di rimanere dentro.
Metto l’acqua sul fuoco e la lascio bollire. Nel frattempo mi scaldo le mani davanti al camino che asciuga l’umidità dei muri, le ossa e i pensieri grigi che ristagnano.
Quando l’acqua finalmente bolle, la verso nella tazza grande, da prendere con due mani. Ci lascio scivolare cinque-sei perle di tè al gelsomino: hanno un profumo lontano ma allo stesso tempo familiare. Sanno un po’ di fiore, un po’ di fieno e un po’ di te. Sono palline verdi che in acqua si aprono e si srotolano in foglie e fiori. Sbocciano in acqua come piccole piante acquatiche che galleggiano nella tazza. Resto incantata per tutto il tempo dell’infusione: cinque minuti in cui i pensieri grigi si disfano e salgono verso l’alto assieme al vapore dell’acqua calda. Mentre la foresta cresce nella tazza.
Al primo sorso mi si appannano gli occhiali e anche un po’ la testa. Mi siedo sul divano con la tazza in mano e lascio che il profumo del tè al gelsomino mi porti via. In un posto caldo dove è sempre autunno e ci siamo solo noi, perché è dentro questa tazza che è nato il mio primo pensiero di te.

Con le mani nella terra

Lavorare con la terra mi riconcilia con il mondo. Non è una novità, ma finché non lo si prova con le proprie mani la cosa non ha davvero molto senso. Mi piace affondare le dita nel terriccio, scoprire i lombrichi al lavoro e tutto quel formicolio di vita là sotto. Mi appaga sollevare delicatamente le radici e sistemarle nel terreno. Piantare è come stringere un patto silenzioso fatto di cure e attese: o ci stai oppure è meglio che lasci perdere in partenza.  Se ci stai però stai sicuro che, non subito, ma sarai ricompensato.

Quando ci si prende cura della terra, così come quando si fa dell’arte (e intendo dalla poesia alla lavorazione del legno), si diventa dei creatori: e in tutto questo c’è qualcosa di divino e inspiegabile. Dare vita a qualcosa che non c’era e che esiste grazie a te.

Ci si sporca a lavorare con la terra, eppure non è fastidioso, anzi.  Mi piace avere le mani sporche di terra e fregarmene di tutto il resto perché in quel momento sporcarmi le mani è la cosa più importante che io possa fare, per me e per il mio pezzo di mondo. E quasi mi compiaccio dei miei capelli scompigliati, delle guance arrossate dal vento, dei graffi sui polsi e di quelle unghie da pulire. Ma si sta così bene un po’ inselvatichiti.

Pulizie autunnali

Oggi, non so perché, guardando la luce limpida del pomeriggio filtrare tra le foglie gialle, ho avuto la sensazione che bisognasse svecchiare qualcosa. Togliere un po’ di ragnatele, dare aria a stanze stantie, rimettere in circolo buone energie. Fare un po’ di pulizia, buttare ciò che non serve più, tenere l’essenziale. Che poi chissà cos’è. Forse è quello che resta, nonostante il tempo e le stagioni. Il filo rosso a cui appendiamo la vita. E non lo so perché, ma la mia primavera è sempre in autunno.

Sì, è da un po’ che non scrivo più qua. Ma per l’appunto c’era bisogno di fare un po’ di pulizia, dentro e fuori.

ginko

LA SECONDA VOLTA CHE SONO NATO

Circa un anno fa questo racconto veniva selezionato tra i partecipanti al concorso del Festival Carta Carbone, a Treviso.
Lo pubblico qui interamente, anche perché l’antologia, edita da Kellermann, è andata esaurita in breve tempo e non verrà ristampata.

Illustrazione di Francesca Ballarini
Ill. Francesca Ballarini

Io ho paura del buio, ma è meglio che non lo dico a nessuno.

L’unica possibilità è viaggiare di notte, anche se la notte non basterà – dice la mamma. Dobbiamo portarci via poche cose indispensabili, di sicuro una coperta: perché di notte sarà freddo e perché di giorno non ci devono vedere. Ci metteremo una coperta sopra la testa per sembrare tanti sacchi nella barca. Ho fatto le prove: devo rannicchiarmi e tenere il bordo della coperta stretto nei pugni, così mi nascondo tutto sotto.

Mi pare che sono bravo a fare il sacco.

La mamma dice di sbrigarmi, che c’è poco tempo.

Poche cose e indispensabili. Non sono sicuro di sapere cosa significa indispensabili, ma penso che è come dire importanti, che senza di loro non vivi.

Ci sono tre cose per me importanti, oltre alla mamma: il nonno, la mia capretta Kiwi e la maglietta del Milan che mi ha regalato lo zio Ahmed.  Due però le ho già lasciate al villaggio: il nonno è troppo vecchio e ha detto che dalla sua terra non se ne vuole andare, quindi non ho potuto portarlo con me, nemmeno trascinandolo con la forza.

E poi la mamma dice che non abbiamo i soldi anche per lui.

Kiwi è troppo grande, fa i salti e delle cacche piccole e puzzolenti: non me la lascerebbero mai tenere nella barca. Allora non mi resta che la maglia: me la metto addosso sopra all’altra, perché la mamma ha detto di vestirsi tanto. Che non vuol dire pesante, ma con tanti vestiti uno sopra l’altro, così è un po’ come se uno la valigia ce l’ha addosso.

La maglia del Milan va sopra a tutto perché si deve vedere bene il numero, che è il 45.

Secondo me il numero mi porta fortuna perché è di un giocatore dell’Italia – che è dove dobbiamo andare con la barca – ma è anche nero come me, ed è famoso e ha un sacco di soldi.  Io non so se diventerò un calciatore famoso e pieno di soldi, però l’unico modo per saperlo è andare via di qua.

La mamma dice di fare in fretta.

Lei è stata occupata fino ad ora con Aisha, la mia sorellina, che ha appena un anno e non sa preparare la borsa. Non sa fare ancora molte altre cose come parlare e camminare bene.

Io invece sono grande e so capire, ad esempio, quali sono le robe da portare e quali no.   Continua a leggere “LA SECONDA VOLTA CHE SONO NATO”

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